Recensione: Il massacro di Tulsa, ricordato dai sopravvissuti

Torna Goin' Back to T-Town, il documentario della PBS del 1993 sull'omicidio di massa dei residenti neri di una città e la distruzione della loro comunità.

Una scena di Goin

La PBS ha raggiunto il suo caveau e ha recuperato Goin' Back to T-Town, un documentario dell'American Experience del 1993 la cui trasmissione lunedì sera è doppiamente tempestivo. Segna il centesimo anniversario alla fine di quest'anno del massacro di Tulsa, la rivolta razziale mortale e massicciamente distruttiva che è rimasta poco conosciuta quando il film è stato realizzato, ma ultimamente è riemersa come una brutta cicatrice sulla coscienza americana.

Onora anche la carriera del veterano regista nero Sam Pollard, che ha prodotto il film con sua moglie, Joyce Vaughn. Dopo aver lavorato sotto il radar per quasi 50 anni, è attualmente celebrato per un nuovo documentario MLK/FBI. Il suo ultimo progetto, Black Art: In the Absence of Light, sarà presentato in anteprima martedì su HBO.

Lavorando con un team che includeva artisti neri come la scrittrice Carmen Fields, il direttore della fotografia Robert Shepard (Freedom Riders (2011), Eyes on the Prize) e l'attore Ossie Davis come narratore, Pollard e Vaughn raccontano la loro storia in modo conciso ed elegante, nel tradizionale stile chiaroscuro-intervista dei documentari storici della PBS, ma con una svolta.

Non compaiono storici o esperti esterni: il film si basa interamente sulle voci e sui volti di circa 15 residenti neri di Tulsa, Okla., alcuni dei quali furono testimoni oculari degli eventi del 31 maggio e 1 giugno 1921, quando una folla bianca bruciò per terra il quartiere di Greenwood di 35 quadrati e uccise fino a 300 Black Tulsans. (Uno dei soggetti dell'intervista, John Hope Franklin, che si trasferì a Tulsa poco dopo il massacro, divenne uno studioso di spicco della schiavitù e dell'ingiustizia razziale americana.) È un approccio che non può essere duplicato ora, quando quasi tutti i i sopravvissuti al massacro sono morti.

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Credito...Libreria del Congresso

Il film può sovvertire le aspettative di un pubblico contemporaneo anche in un modo più fondamentale. La violenza in sé, vividamente rappresentata in recenti drammi come Watchmen e Lovecraft Country, non è il fulcro drammatico di Goin' Back to T-Town. Il racconto del film, dal contatto accidentale di un uomo di colore e un'adolescente bianca ai montaggi di rovine fumanti e cadaveri che giacciono per strada, occupa circa 10 minuti angosciosi ma sommessi a metà.

Pollard e Vaughn stanno raccontando una storia più ampia. Inizia con un resoconto stimolante e ingannevolmente allegro della crescita di Greenwood, la più grande di una serie di comunità interamente nere in Oklahoma. L'intera sparatoria era lì, ricorda un sopravvissuto, e la telecamera scansiona una directory aziendale che elenca hotel neri, agenzie assicurative e The Williams Grocery, per orgoglio razziale. Nel 1921 gli 11.000 residenti neri di Tulsa potevano vivere in sicurezza all'interno di un'enclave con 15 negozi di alimentari, quattro drugstore, due cinema e due scuole pubbliche proprie. Ma il Ku Klux Klan era nelle vicinanze, a soli quattro isolati di distanza su Main e Easton, ricorda un residente.

E il film trascorre la sua seconda metà sulla storia post-massacro di Greenwood, che è stata ricostruita ed è rimasta un quartiere nero senza riconquistare la sua precedente prosperità. È una storia triste e complicata, in cui la società parallela creata da residenti e uomini d'affari neri è stata doppiamente maledetta: prima vittima apparentemente inevitabile di risentimento e violenza razzisti, e poi, dopo le battaglie nazionali contro la segregazione vinte negli anni '50 e '60, un vittima dello spopolamento e del degrado economico. Abbiamo l'integrazione, il soffocamento, il degrado e tutte le altre emozioni che vorresti avere, dice un residente di vecchia data.

Il tono di Goin' Back to T-Town è elegiaco, e il suo coro di testimoni per lo più anziani è impeccabilmente dignitoso: stanno chiaramente svolgendo un dovere, e la loro rabbia e il loro dolore, mentre sono solo in superficie, non sono mai assecondati. Il film si conclude con i loro ricordi, e un'ultima scarica di immagini, di un periodo sereno di nient'altro che vita normale: partite di calcio, shopping, cene fuori. Non detto ma manifesto è quanto sia sempre stata diseguale quella vita separata, e quanto fugace e fragile la felicità che ha portato.

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